Il Dispari 20240422 – Redazione culturale DILA APS

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Il Dispari 20240422

Il Dispari 20240422 – Redazione culturale DILA APS

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo” Ottava puntata

Parte seconda

CAPITOLO PRIMO

I bulbi oculari mi facevano male, forse per la scarsa luce, forse per il poco sonno, forse per le tante ore trascorse a scrivere, forse per l’età, ma certamente andava ascritta al mio disordine mentale una qualche responsabilità per aver provocato il loro roteare senza punti fissi di riferimento.

Fermò le dita affusolate di mia madre, piegò verso l’alto il corpo armonico di mia sorella, e con la voce profonda di mio padre «Io sono Ignazio» disse.

-«Ignazio?»

-«Sì Ignazio»

-«E allora? Con ciò? Che cazzo significa? Basta indovinelli. Parla o vai. Ignazio, Filippo, Marco Aurelio, Giulio Cesare che me ne fotte del tuo nome!
Parla o vai.
Bevi, fuma e vai di corsa.
Non ho mai tempo per nessuno, figuriamoci oggi.
Non ne ho abbastanza neppure per me!»

-«Io sono Ignazio di Frigeria e D’Alessandro.
Tuo fratello gemello.»

Scolorire al buio.
Perdere battiti cardiaci.
Stoppare il respiro.

Chiusi gli occhi e mi chiesi se credere che i sogni si generino prima dei fatti, oppure se persuadermi che ne siano una rappresentazione.
Le fantasie germogliano da oniriche trasgressioni mai metabolizzate, oppure ne costituiscono le origini?
Prima l’uovo o la gallina?
Ignazio di Frigeria e D’Alessandro: il mio passato di sfrontate personificazioni dei mali del mondo.
La droga, la guerra, l’azzardo, lo stupro, si erano, tramite lui (visto da sempre quale compendio d’ogni maleficio), materializzati nella persona del traghettatore piagnucoloso che si dichiarava mio fratello e del quale mi impressionavano alcune caratteristiche fisiche: la voce profonda di mio padre le dita affusolate di mia madre ed il corpo armonioso di mia sorella.
Nel mio passato era stato un sogno, una visione?
A raccogliere i cocci di una bottiglia era la presenza di un incubo, d’una allucinazione?
Allora, quando scrivevo di Ignazio il combattente in Viet Nam, mi sfidava una forza di coesione che non si lasciava cancellare dal tempo e dalla distanza?
Il richiamo di una energia sconosciuta?

Nella situazione che stavo vivendo per il trasferimento che mi accingevo a compiere, ero oppresso dall’ossessione di pretendere una vicinanza familiare?
Ignazio, per me, padre madre sorella?
Mi chinai nell’atto di sollevarlo, ponendo i gomiti fra tronco e braccia, e quando il suo viso, assecondando i movimenti che compivo, giunse ad un palmo dalla mia bocca «Non ho fratelli» sentenziai «Non ho mai avuto gemelli, tu sei il parto della mia fantasia, tu sei mio.
Ignazio di Frigeria e D’Alessandro mi appartiene.
u mi appartieni», attesi l’attimo necessario a che deglutisse l’assoluta determinazione da cui mi sentivo invaso, e stringendo i polsi fra i pugni chiusi ai lati del suo torace, con la calma della follia «Perché sei qui?» gli chiesi.

Finalmente, sul soffitto, al centro del mio mondo, accesi il faro delle grandi occasioni.

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CAPITOLO SECONDO

Non poter descrivere nei dettagli la serie di virulente emozioni che mi procurò il prosieguo dell’incontro con il mio gemello Ignazio, è il prezzo che voglio pagare per non derogare dalla militaresca sottomissione al principio di essenzialità nel quale ho deciso di rinchiudere l‘esposizione di questa storia.

Ero certo «Alle venti sarò da Aurora.
Non un minuto oltre».

E come potrei esaurire, con locuzioni brevemente tratteggiate, la descrizione del patos -posso dire a mala pena celato-, che lui mi aveva procurato definendo con frasi stringate la precisa e dolorosa ricostruzione dell’intrigata vicenda che aveva determinato la nostra separazione, nel 1943, tra guerra, fame, tradimenti?

Avevo ascoltato un Ignazio finalmente privo di reticenze.
Albeggiava.
Il gallo, i passeri, la fresca brezza che in tempi andati forse spegneva le lampade a petrolio sulle vie, il primo discreto avvicinarsi di un pullman di linea, il rombo soffuso del volo aereo Venezia Napoli, segnalavano con sufficiente precisione lo sviluppo delle ore.
Le quattro e venticinque.

Ero certo «Alle venti sarò da Aurora».

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Se mi sarà concesso, quantunque in un luogo differente e con altra penna, colmerò le tante lacune di questa ricostruzione, cimentandomi in una impresa narrativa che non potrà in quel caso essere ridotta ad un breve racconto.
Se sarà.

In sintesi, il suo racconto iniziò dall’età di cinque anni, nel 1948, quando io vivevo ad Ischia senza luce elettrica e senza acqua corrente.
Ignazio abitava, con la famiglia dalla quale a sua insaputa era stato adottato, in una sfarzosa tenuta spagnola assegnata, in segno di cameratismo, dal “Franco” allora dominante all’amico gerarca fascista che si era rifugiato sotto la sua protezione subito dopo la fuga del re dall’Italia.
Nel 1948 la balia gli svelò una prima parte del segreto: «Sei un bimbo adottato.»
Lui non capì e proseguì nella sua infanzia.
O non volle comprendere?
A me quell’anno non dissero niente.
Tutto, così, proseguì uguale a sempre.
Nella solita consuetudine.
Nel 1961, compivamo diciotto anni.
L’invecchiato comandante in esilio convocò il giovane Ignazio nello studio tappezzato da grossi volumi di libri mai letti, ed in quella occasione parato a festa con stendardi sfilacciati di una unica etnia svolazzanti tra tazzine da caffè rigorosamente nere, per comunicargli, adagiando rispettosamente la mano destra sulla banderuola che tra tutte figurava il riconoscimento per il maggiore atto di eroismo bellico, ufficialmente formalmente «Tu hai un fratello gemello.»

La frontiera nazionale del Montecarlo passa attraverso la struttura edilizia d’alcuni alberghi, cosicché ai privilegiati clienti è sufficiente spostarsi di una camera nello stesso ambito residenziale per godere degli effetti giuridici di un altro stato.
Simile trasferimento fece Ignazio.
Solo?
Con un fratello?
Io sono, lui è.
E tutto proseguì nella stessa identica ripetitività quotidiana.
A me nel 1961 non dissero nulla e nulla mutò.
Nessun particolare era rimasto inciso nei miei pensieri.

Mi chiesi quanti parenti ed amici avrebbero avuto la facoltà d’aiutarmi provvedendo alla discreta ricostruzione dei segnali che, forse, io non avevo recepito, oppure che, invece, in una ipotesi maggiormente attendibile, nessuno di loro in tanti anni si era mai proposto di far balenare davanti alla mia mente. Neppure sotto una qualsiasi forma allegorica o mediante l’ambigua divinazione di un improbabile oracolo.

La gente che mi era stata vicina, spesso amica, a volte finanche unita da un vincolo d’intimità, e che sapeva, la gente delle mie terre, delle mie case, dei miei rifugi, non aveva, fino ad allora, illuminata un’ombra sufficiente affinché potessi impossessarmi delle vicende essenziali alla comprensione di questa parte della mia storia personale!

Ignazio era stato davvero tutto nella vita: un gran colpo di sfida perenne.

Non mi svelò alcun particolare somatico o caratteriale della sua madre adottiva, neppure durante il sofferto ricordo del segreto che lei gli aveva voluto rivelare, mentre oramai le sfuggiva la vita, dicendogli «Tuo fratello è Bruno Mancini.» Poco dopo, serenamente, finì.
Sono il fratello, ma per lui non cambiò nulla.
Non ne ero a conoscenza, e per me fu ancora come prima.
Tutto uguale per noi.

Veniamo al dunque.
La sua confessione ebbe termine alle cinque e trentotto.
ra suonata la sveglia dell’inquilino, di professione muratore, che alloggiava nei locali adiacenti alla parete del mio angolo di complicate meditazioni.
Era male tarata, può darsi volontariamente, altrimenti perché avrebbe strimpellato alle cinque e trentotto?
Cinque e trenta va bene.
Cinque e trentotto non va bene.
Non collima.
Non si spiega.
Siamo tutti formalisti.
Lui disse «Sono qui perché mi hanno convocato.
Aiutami.
Voglio il tuo aiuto.»

-«Che incredibile coincidenza! Quando?»

-«Fra poco, alle venti.»

Quanto tempo occorre per arrostire una catasta di funghi campagnoli d’origine dubbia, e mangiarli tra fette di pane pugliese e litri di birra popolare?
Quanto tempo ci vuole per fare uscire dallo scroto i coglioni distrutti e sbatterli nel ventre della puttanaccia internazionale?
Per salutare gli amici?
Mortificare i nemici?
Stringere al petto la donna amata?
Bere, bere, bere, scrivere, scrivere?
Guardare le stelle?

Troppo.

Neppure intendo dilungarmi intorno alle priorità che tentavano di occupare un posto nelle poche ore disponibili.
In questo contesto potrebbe risultare un elenco penoso, lacrimevole, mentre invece, con una differente atmosfera, sono sicuro di non aver difficoltà a dimostrarne la bellezza emotiva, pur nelle contrastanti armonie.

A titolo di esempio: avrei dovuto provvedere a cambiare l’acqua nella boccia di vetro dei miei amici pesciolini rossi ed aggiungere qualche razione supplementare di scaglie Goldfish Food, non senza irritante dispendio di minuti preziosi, oppure dare precedenza alla chiusura dei rubinetti?

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Il Dispari 20240415

Il Dispari 20240415 – Redazione culturale DILA APS

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo”

Settima puntata

 

Parte seconda

CAPITOLO PRIMO

Nei mari dei Caraibi la preda è il pescatore che non utilizza adeguate protezioni.
Soltanto un lusso svogliato lo porta a privarsi di bombole e boccaglio per la pesca dei barracuda.
Il Tirreno era considerato dagli antichi un mare “nostro”.
Noi umani moderni lo abbiamo squamato devitalizzato disinfettato colonizzato, reso una fogna, riciclato in mare “morto”.
Era in esso (avrei preferito scrivere in lui) che spesso sguazzavo, intrepido e naturalista, imbozzimato tra le spire coinvolgenti delle immersioni.

Con maschera e pinne.
Sempre senza bombole.

Nella settima edizione delle mie incursioni tra le gole marine di San Pancrazio, alla ricerca di una mitica tana di cernia che ricordavo ricoperta da alghe e licheni, per non concedermi un respiro, l’apnea avrebbe potuto togliermi la vita prima della risalita.
Più giù.
Più più.
Più tempo.
Più volte.
Più sempre, più tutto, più giovane, più forte, più solo, più assurdo, più io, più meno.

Dietro alla porta chiusa del mio rifugio, che certo non bussava da sola, come braccata dalla muta camaleontica di un sub, la mia apnea, per me ad un tratto trasformato in cernia indifesa, non era altro ormai che scommessa perduta.
Non voglio, non posso, non apro, non sono, la mia perdita di respiro è spirale avvolgente.

La mia apnea si asserviva al lusso svogliato di prolungare un calvario per una determinazione che non era in mio potere modificare.

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-«Chi bussa alla porta?
Chi è?»
Accomodati amico, gli dissi, e lui sedette.
Gradisci una birra popolare, gli chiesi, e lui bevve.
Accendiamo una sigaretta? Fumammo.

Nessun uomo è paragonabile ad una donna.
Non c’è uomo simile ad un altro uomo.
Non esistono due gravidanze uguali.
Nelle belle famiglie campagnole il gatto era gatto.
L’agnello, agnello
Il cavallo, cavallo.
Il maschio adulto era il padrone di casa.
Anche di tutto il suo contenuto.
Matriarche comprese.
Il lutto della diretta è la corsa in avanti senza ripetizione.
Io, mentre scrivo un racconto, posso superare l’ostacolo, recuperando l’omesso.

Lui diceva “me ne fotto”.
Io ci provo. Aggiungendo.
Accomodati amico, gli dissi.
Aveva la faccia pallida di un uomo ormai fantasma.
Gradisci una birra popolare, gli chiesi.
La sua bocca si aprì a fatica quasi fosse incollata da un immenso terrore.
Accendiamo una sigaretta americana turca napoletana?
La prese con la mano tremante del cacciatore di tigri, disarmato, al cospetto della splendida bestia immobile in un agguato traditore.

Non mi spiegavo né l’origine, né la natura, di tali incontrollate manifestazioni esteriori d’emozionalità espresse, per altro, da colui che identificavo come il professionista inviato dalla mia amica Aurora per rendermi meno penoso il passaggio al suo di “Là”.

Sul tavolo sgangherato a seguito dei continui sbilanciamenti del mio corpo scoppiettante di bollicine gialle, la figura sconosciuta aveva poggiato i gomiti per trattenere la testa ciondolante come il pendolo capovolto di un orologio del tardo ottocento.

Triste, oscuro, silente, non osava guardarmi.

La mia preoccupazione non era certo lo stato d’animo nel quale egli si proponeva.
Figuriamoci!
Ciò che Aurora voleva, la “Signora” poteva.
Vestisse pure i panni del melodrammatico sentimentale, affari suoi.

Il comune mister Pinkerton, Donoval, Smith, Rossi, Giallo, Verde, Forza Napoli, mi fissò con lo sguardo di un maniaco sessuale di fronte alla evidente prossima maternità della più bona del paese. “L’hai fatto” pareva pensasse, “Adesso lo farai di nuovo con me” sembrava volesse imporre.

Schiacciava il suo volto pallido, le sue mani tremanti, le sue labbra asciutte contro la mia, dicono, pigrizia indolenza disattenzione distrazione.
Eppure i suoi tratti somatici appartenevano a qualche ricordo passato che avevo apparentemente rimosso.
Ho dimenticato il nome del cane che ha diviso per venti anni la mia gioventù, ma non mi sfugge, tra la folla di una stazione ferroviaria durante l’ora di punta, il volto di chi ho frequentato anche saltuariamente anni addietro.
E’ vero, sono fisionomista.
Al chiaro del sole.
Con molta luce.

-«Aiutami» così iniziò: «Aiutami».
Il volo di un calabrone indispone per il ronzare privo di pause ed invita ad una caccia disinvolta.

A me le frasi incomplete nel senso e nella forma invogliano alla fuga ingiustificata.

Erano tre ore che non muovevo un passo, schiacciato con il culo sulla estremità di una sedia, e con le caviglie sul bordo di un’altra ricoperta da un cuscino di gommapiuma sottile come un cartone da imballaggio.
Neppure mi ero alzato per aprirgli la porta, era socchiusa, bastava spingere.
Erano tre ore che non pisciavo le birre popolari stipate a botti nella vescica, erano tre ore che non respiravo un litro d’aria denicotinizzata semi naturale leggermente frizzante per le bollicine provocate dalle onde sbattute sulle scogliere apparecchiate con stupidi blocchi d’indecente calcestruzzo.

Mi alzai, andai nel cesso, aprii la finestra pisciai e l’aria fresca fredda della notte non lasciò dubbi al mio dubbio che forse Mister Ford, Esposito, Mac Carty, Ciun Ciun, Senegal, Pilato, Coglione… fosse una donna… non cambia nulla… è tutto uguale.

Non c’è passione solitaria senza un passato di voglie inappagate.
Spesso essa è solo l’ultimo traguardo, il morbido poggiatesta della pennichella pomeridiana.
Ben altro è ingannare, fingere, sbiadire, rotolare in panni di chi non sei, non disdegnando di porre il dito nella ferita e lasciarlo marcire insieme ad essa.
La fuga e la salvezza.

-«Aiutami» così iniziò: «Aiutami» con una voce simile a quella di mio padre.
Profonda.
E disse: «Ho letto di te ed ho seguito da molto tempo in silenzio la tua vita avventurosa.
I tuoi libri e gli articoli di giornali che seguivano le tue azioni in difesa di libertà e debolezze.
Ti ho ammirato senza averti mai visto. “Il bel maschione conquista la star…”, “è lui l’uomo dell’anno…”, “Trenta milioni di copie vendute…”.
Hai una birra per me?»

I complimenti offerti bene sono tuoni a ferragosto.
Attrazioni di energia esplosiva.
Le lusinghe sono petardi che scoppiano in mano devastando pollici ed indici.
Il suo porgermi frasi banali già udite, di semplice contenuto, inutilmente adulatrici, prive di fronzoli non fu sufficiente a distogliere la mia attenzione dalle dita affusolate che gli reggevano il capo ciondolante.
Così le aveva mia madre.
Affusolate.

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Più che la birra, andai a prendere una pausa di riflessione.
Avevo necessità di concretizzare quell’incontro.
Dimensionarlo, affidarlo a linearità geometriche.
C’era la luna, e i motorini che passavano rumoreggiando per la fretta e la cattiva manutenzione, m’indicavano l’ora.
Quarto più quarto meno, il bar all’angolo chiudeva alle due, ed allora il personale addetto al turno finale ne usciva passando disordinatamente sotto le mie finestre.
Così da anni in questi mesi.
Considerai che stavo scegliendo di costruire da solo risposte per domande che non ponevo: la talpa.

Nessuno sopravvive alla sua storia.
A me non è mai bastata viverla, ho sempre voluto possederla, controllarla, fino a tentare di anticiparne le costellazioni degli eventi casuali.
L’individuo venuto da lontano, l’uomo d’Aurora mi stava chiedendo aiuto con la voce profonda di mio padre, difendendo la testa tra le mani con le dita affusolate di mia madre.
Dov’era il nesso?
Quale era il significato, se c’era?

Passai accanto allo scaffale dove erano riposti gli album fotografici, ed un fugace pensiero me li fece abbinare a reperti, già fossili, destinati a futuri mercanteggiamenti di archeologia sociale.

Seguivo la traccia di piastrelle, color rosso vinaccia indicante sul pavimento la linea di separazione tra la zona di casa preferita per i miei contorcimenti mentali, e la cucina ospitante file di lunghi colli gonfi di liquido giallastro.
Al buio.
Tutto al buio, anche al buio.
Ho smesso di chiamarla birra.
La bottiglia dal collo alto non imponeva rivincite.

Pumm: Fzzzz.

Come una biglia nel castello dei birilli, avevo creato un effetto domino, ed una bottiglia piena mi cadde dalle mani spiaccicandosi a terra.
Accade.
Accadde.
L’uomo? La donna?
Ei senza nome, udito il tonfo, si mosse veloce per aiutarmi.

Il secchio la scopa la paletta, «Che m’importa!», dicevo, «Lascia così.», «Ne ho altre.», Ei con voce profonda e dita affusolate «Faccio in un attimo.», «Non ci vuole molto.», «Perché no».

I suoi erano movimenti scattanti ed eleganti, di una particolare armonia che mi richiamava alla memoria i gesti di mia sorella.
Armonico.
“Così o come” fosse stata mia sorella.
Chi aveva bussato alla mia porta?

Io dissi «Perché sei qui?»

Lui pianse.

Pianse come un poeta, ricordando l’infanzia, narrando l’amore, sognando la pace.

Un’enorme confusione inzuppò di filamenti disordinati ed instabili il cesto di sparute tracce che avevo creduto di recepire dalla telefonata della mia amica «Signora».

Il traghettatore, Lui o Lei, Ei senza nome, con la voce di mio padre, le mani affusolate di mia madre, il movimento armonico di mia sorella, piuttosto che assecondare i miei desideri, piangeva sul pavimento di piastrelle gialle raccattando i cocci di una inutile bottigliaccia di liquido commerciale, mentre io contavo con ansia le ore i minuti secondi attimi mancanti al momento in cui avrei dovuto presentarmi alla convocazione.

Fine settima puntata.
Segue la prossima settimana.

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Il Dispari 20240325

Il Dispari 20240325 – Redazione culturale DILA APS

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo”

Sesta puntata

 

Parte seconda

CAPITOLO PRIMO

Avevo da poco terminato di scrivere le pagine che avete letto, e mi accingevo ad un primo approccio con il capitolo cinque ancora vuoto quando uno squillo, dallo strano sapore di mandorle o nocciole tostate e zucchero nasprato, fece sobbalzare, non solo il segnale d’avviso del mio videotelefono, non solo i pesciolini rossi nella boccia trasparente casualmente aderente all’appoggio rumoroso e traballante (per loro fu quasi un terre-mare-aria moto secondo la teoria fisica della propagazione delle onde nei liquidi), non solo gli occhiali sul mio naso per il repentino movimento della testa, e la bionda schiuma di birra commerciale versata distrattamente nel bicchiere arrotondato a forma di bocca di vulcano spento, e poi la lunga scia di fogli sparpagliati sovrapposti disordinati in equilibri provvisori ed instabili, e la cenere della sigaretta che stringevo tra i denti per il tiro tiraccio tirone tiretto finale, ma, se volessi dire tutta la verità, dovrei aggiungere particolari perfino sulla rottura sobbalzo sballottamento scatenamento giramento girotondo di… parti basse del mio ventre, mentre, invece, mi voglio limitare ad affermare che quello squillo, la cui provenienza avevo identificato sul minuscolo schermo tecnologico luminoso, creava un potente sbarramento per ogni via di fuga della mia solitudine notturna.

Cercavo di distrarmi, quantunque l’aggeggio continuasse a vibrare, squillare, tormentare i pesciolini rossi, con un forte odore di odissea nello spazio intriso di sfumature all’incenso e vino cotto tanto invadente che, insinuandosi nei lobi auricolari, attraversava incudini e martelli per biforcarsi maleficamente (i miei amici Indiani chiamavano l’uomo bianco lingua biforcuta) tra una papilla gustativa spugnata di birra popolare ed un pigmento olfattivo catramato nicotinizzato bruciacchiato.

Ero stanco, avevo martoriato mortificato martellato per ore lo strumento della mia incapacità, della mia disperazione, del mio sublime aver voluto: il sassofono tenore di marca Orsi ed ancia selezionata in faticosi esperimenti.

Ero suonato, per l’accesso intermittente ininterrotto intenso alla cassetta caverna cassaforte caveau del grosso stipone stipato nell’angolo dietro la porta della cucina: silenzioso bianco latte frigorifero custode delle mie birre popolari.

Ero nel panico per mancanza di appigli appoggi appelli, apriti Sesamo, a chi mi rivolgo, aprimi Sesamo aprimi uno spiraglio speranza abbaglio, per la matita spuntata nell’ultima riga.

E lui suonava!

Mi correggo. Correggo la frase plebea.

Il Dispari 20240325 – Redazione culturale DILA APS

E lui suonava, significa che un lui, quindi un individuo di sesso maschile usava uno strumento adatto a produrre piacevoli onde sonore ecc, in vero io volevo dire che lui, il telefono, esso, continuava ad emettere vibrazioni sgradevoli sgradite sgraziate, grazie.

Lui, esso, squillava, e la curiosità, onde scoprirne il motivo, sculettava per sedurre indurre il pigro indolente rotore del mio sistema ad attivare uno sforzo punto X punto Y, tale da movimentare delicatamente l’unghione della mia mano oppure il pistillo della penna, fin sulla mini tastiera del cellulare mignon, in tal modo connettendo, con sua soddisfazione, le due utenze.

Ero spossato spompato sbolinato annacquato svaporato distrutto da “Così o come”, racconto docile ed irrequieto che mi aveva assecondato per sfuggirmi, e mi aveva illuminato per trattarmi come il pennello di un oscilloscopio relegato a registrare le intensità dei terremoti eruzioni vulcaniche maremoti bradisismi onde cosmiche venti solari. L’elettroencefalografo di uno, trenta, quaranta, due emozioni cerebrali.

Ero tutto ciò per la imminente immanente forse immemore non immortale, immateriale fine della mia semplice nutrizione mentale.

Aurora, la Signora, la Donna Guascona, non avrebbe fatto schiaffeggiare il mio silenzio notturno dallo stupido gracchiare di un cellulare se non avesse trovata la cacca nella marmellata, oppure la marmellata nella cacca, che non significano lo stesso quid.

Quanto avrei potuto resistere?

Neppure cinquecento squilli.

Addormentarmi?

Neppure con trenta caffè!

Tanto valeva affrontare l’ignoto, e speriamo bene.

Il Dispari 20240325 – Redazione culturale DILA APS

-«Pronto.»

-«Ignazio?»

-«Sì, Aurora, sono io. Ma perché mi chiami Ignazio anche in privato?»

-«è Il tuo nome d’arte. Ricordi “La Notizia virgola la Condanna punto”? Tu non mi chiamavi “Signora”, io scelsi per te il nome Ignazio. Un nome d’arte.»

-«Come stai Aurora?»

-«Così!… Sei solo?»

-«Sempre a questa ora.»

-«Lo so che è tardi, però anch’io non… mi sono posto il problema… domani sarebbe inutile… Ricordi l’uomo dal fiore di ginestra all’occhiello del bavero?… Parla sempre di te…»

-«Perché mi hai chiamato?

…Anche per me lui è un punto di riferimento importante “così o come” la sua donna dalle mani ambrate.

…Perché hai chiamato?»

-«Lei, adorabile, se potesse riabbracciarti sarebbe la felicità assoluta. è Aurora che ti parla, l’amica.

Non ho dimenticato la spontanea disponibilità con la quale ti sei proposto, nel momento per me più delicato, contrastando l’agguato che Snob Rob ed i suoi compari di luride merende avevano tentato nei confronti di me SIGNORA…»

-«Aurora, ho capito, amica, è tardi, se vuoi ne parliamo domani, lo so, amica, sei amica, mia amica e basta. Aurora, perché hai telefonato?»

-«Così vuoi, così sia. Sei stato convocato.»

-«Io? Quando?!»

-«Domani sera alle venti.»

-«Così poco tempo?»

-«E’ già tanto saperlo.»

-«Allora ci vedremo presto!»

-«Già. Ho ottenuto che ti sia concesso il privilegio di un accompagnatore ufficiale.

Sarà da te fra poco.»

Tu tu tu tu tu tu tu tu tu tu tu tu

Fine della telefonata.

Fine della trasmissione.

Fine di cos’altro.

Fine.

Aurora, in virtù dei nostri precedenti ottimi rapporti di complici intese, aveva chiamato per dirmi di aver inviato “Qualcuno” a prelevarmi, con lo scopo affettuoso di non lasciare che effettuassi da solo il difficile viaggio di trasferimento che mi chiedeva di compiere.

Giusto?

Giusto.

Preparare i bagagli o sistemare i bordi sconnessi delle pagine già scritte?

Abbozzare il mancante capitolo cinque, titolandolo: “Bozzetti di famiglia”?

Di quanti Castelli, Pinete, Canneti, Tagliacapelli, Carrozzai Carrozzieri Uomini e Donne, presenti nel mio cuore con bandierine mascherate piuttosto che luminescenti, vorrei scrivere un “senza fine”?

E mia madre, mio padre, le sorelle?

Gilda?

Troppi.

Troppi, fino a domani sera alle venti.

Dei bagagli ne faccio a meno.

Bevo una mega birra super popolare.

Era di certo a breve distanza da me, a pochi metri se non addirittura in una delle stanze attigue.

Se avessi chiesto l’avrei saputo con precisione.

Le mie prime reazioni di stupore incredulità sorpresa “è così o no?”, malinconia sconforto abbandono “Che ci posso fare!”, immobilità fisica mentale sentimentale “Doveva accadere prima o poi”, vennero inghiottite insieme alla bella schiuma gialla della birra popolare e furono soppiantate da brevi fugaci emozioni mai dimenticate: i tesori ed i retaggi degli incontri determinanti per la indiscutibile amicizia tra me e la “Signora”.

La fama della mia amicizia con Aurora, in modo particolare dopo la pubblicazione di “La Notizia virgola la Condanna punto”, unitamente a tutta una serie di pettegolezzi urbani riguardanti il mio sistema di vita imbottito, dicevano, di estrema pigrizia indolenza disattenzione distrazione (io direi, invece, giusto impegno parsimonia e saggio economizzatore di beni importanti quali il tempo e lo spazio), “così o come” accadde per i films di Rochy, avevano posto la mia immagine all’apice del consenso, ma la mia vita privata nell’infernale sfera della popolarità.

-«è lui, è lui!»

-«L’amico di Aurora, venite…»

-«Ignazioooooo…»

-«Una birra popolare al signor Ignazio.

Mi permette una foto? Sì grazie. Scatta, fai presto, il signor Ignazio ha fretta.»

Un bestione alto due metri e trentacinque centimetri, tra pollice e mignolo, un giorno mi ha poggiato affettuosamente la mano sulla spalla e per poco non m’inchiodava al suolo come una palina di fermata autobus.

Una bagascia dai giochini veloci – ultra veloci – rapidi – urgenti tariffe maggiorate, mi ha baciato quasi sulla bocca nel supermercato gremito di gente e, forse peggio, ha spalmato sulle mie braccia con le sue ascelle sudaticce un indefinibile odore di capre e di pesci, di fattrici e di stalloni, di sessi e di colonie.

La bimbetta non ancora ragazzina stentava a comprendere gli ordini della mamma, però mi guardava come se fossi stato un vecchio Babbo Natale, intanto che mi tirava i pantaloni mostrando un blocchetto ed una penna per pretendere un autografo.

Sì forse è meglio cambiare programma, dicevo a me stesso durante ogni pausa di lavoro che mi consentivo (già non lo sapete, ma io lavoro, faccio il “A”.

“B” faccio l’assaggiatore di birre.

“C” faccio l’avvocato del diavolo.

“D” faccio l’uomo della provvidenza.

“E” faccio il servo degli istinti.

“F” faccio Ignazio di Frigeria e D’Alessandro.

“G” faccio l’uno e il trino più tre.

Bussano alla porta…

L’apnea è la scommessa perduta, la spirale avvolgente, il lusso svogliato.

Fine sesta puntata.

Segue la prossima settimana.

Il Dispari 20240325 – Redazione culturale DILA APS

 

Il Dispari 20240318

Il Dispari 20240318 – Redazione culturale DILA APS

Così o come
Un racconto di Bruno Mancini
inserito nel volume “Per Aurora volume terzo”

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Quinta puntata

Parte Prima

CAPITOLO TERZO

C’era una volta ed ora non c’è più, è una espressione di dolore dissimulato, la maniera atavica di considerare una perdita, qualsiasi essa sia stata, al pari di un accadimento ineluttabile, una forza del destino, una scelta divina, a secondo delle diverse dottrine alle quali ci si voglia rapportare.
C’era una volta ed ora non c’è più, è comunque una frase meno sferzante e dolorosa di: c’erano una volta ed ora non ci sono più.
Meno sotto tutti gli aspetti: quantità, certezze, valori.
Non sempre è possibile accertare, per singoli eventi, quanti siano stati coloro che “C’erano!”.
Nel tentativo d’identificare chi o cosa valga l’affetto che gli dedichiamo, e ne sia degno fino al punto da meritare l’inserimento nel nostro personale elenco speciale dei “C’erano!”, dobbiamo ricostruire molte difficili certezze.
Non sono certo che esista, per ogni situazione, uno specifico sistema adatto a farmi assegnare valore alle univoche diversità, nel caso in cui esse rappresentino i tanti o tante che “C’erano!”
“Così o come”: così trama e dubbio (sempre lui), o come da rivolo a torrente, il mio segreto addio saluta le PINETE D’ISCHIA.
C’erano.
Grazie ai miei amici ed ai miei nemici, se mai ne ho avuti degli uni e/o degli altri, le PINETE D’ISCHIA non ci sono più.
Proseguendo nella particolare marcia per l’avvicinamento alla efebica idea del racconto di uno spacco inciso tra le facce, di Ischia e degli ischitani, che ho amato in maniera inconsapevole, mi piombano addosso, scostumati, i canneti a ridosso delle distese sabbiose che merlavano con ricami inconsueti i bordi tra l’isola e il mare.
Era esaltante la solitudine di ascolti, tra venti e risacche, dei fruscii di lucertole verdognole e d’innocue bisce in contrappunti, duetti e contrasti con i battiti delle ali di calabroni simili ad elefanti, o di vespe ed api più veloci degli elicotteri modello da battaglia.
Ero lì.
Io c’ero.
Forse cercando vermi da usare come esche sulle trappole per uccelli, direbbe il diavoletto.
Assaporando la prima dose di una poesia drogante mai più dimenticata, direbbe il santarello.
Partecipando ad una irripetibile esplosione di schioppettante bellezza, direi io.
Così trama e dubbio, come da rivolo a torrente, il mio segreto addio
saluta i CANNETI D’ISCHIA.
C’erano.
Grazie ai miei amici ed ai miei nemici, se mai ne ho avuti degli uni e/o degli altri, i CANNETI D’ISCHIA non ci sono più.
Vorrei poter cambiare almeno il corso delle mie giornate per farle iniziare dalla sera e cessare all’ora di pranzo, trasformando in sonno la pennichella pomeridiana, ed in attiva fioritura le faticose ore che le notti attuali concedono alle mie vibrazioni.
Questo racconto semplice come può essere la ricostruzione, mentre sono bendato, bendato, del mio profilo nasale, apparentemente svogliato, privo di fronzoli e inganni né più né meno di Cappuccetto Rosso, ma, in effetti, affaticato dai problemi che torcono i sogni in desideri, che intrecciano passioni ed affetti, ricordi e realtà, il nostro andare in carrozzella ed il tiro del cavallo, questo racconto mi chiamerebbe fazioso sfuggente incompleto se non menzionassi la perla nera di tutti gli abissi che sono stati perforati con malvagità ed abusivismo sulla pelle e nel cuore della mia isola.
L’orca marina uccide per sopravvivere.
Il leone marino di oltre due quintali, caccia con volteggi essenziali.
“Così o come” un rudere, nel tempo delle PINETE e dei CANNETI, il CASTELLO sprigionava il lezzo dei morti ammazzati in tentativi di conquiste e difese, i profumi di spezie cortigiane e principesche, gli odori unici ed irripetibili di mirti o di muschi trasportati da brezze contrastanti tra ceneri vulcaniche e spruzzi d’onde sfacciate, gli effluvi per nulla evanescenti di sterco di muli e cavalli, i vapori solfurei della grotta deposito per polveri da sparo, il fumo della bestia rosolata a fuoco lento nel cortile delle feste.
“Così o come” un simbolo, nel tempo delle PINETE e dei CANNETI, il CASTELLO scopriva senza civetteria il suo interno, ove, rinchiusi racchiusi socchiusi, mitiche alcove, ruderi anonimi, antiche fortezze e nuove prigioni, in alcune notti fungevano da segreto richiamo per giovani coppie in cerca d’ispiranti atmosfere amorose, nei giorni di festa si confacevano a lussureggiante baita per famiglie in gita domenicale con la classica frittatina di maccheroni avvolta in due piatti ed una salvietta, e, non tanto raramente, si prestavano ad accettare il ruolo di solitario rifugio per sperduti intellettuali scappati dai disincanti di schematici palazzi cittadini.
“Così o come” una gioia, nel tempo delle PINETE e dei CANNETI, il CASTELLO offriva la luminosità dei nostri orizzonti naturali sparsa senza ritegno sulle profonde tracce lasciate nella rocca maniero da eventi impetuosi e passionali. Per ora basta così!
CASTELLO ARAGONESE IL CASTELLO D’ISCHIA.
Volete un residence, un ascensore, un botteghino, un ristorante, un cannocchiale sul golfo, volete una scia di storia coperta da muraglie di cemento, volete un isolotto bucato come una gruviera, squassato da malte e laterizi, illuminato con i fari ed i laser dei by night, stordito da urli urlacci musica musicaccia, volete una Vostra eredità intangibile trasformata in affare turistico: ecco a Voi IL CASTELLO ARAGONESE D’ISCHIA.
Oggi potete chiamarlo “IL CASTEL LETTO”.
Albergo a “?” stelle.
“Così” trama e dubbio, “come” da rivolo a torrente, il mio segreto addio saluta il: VECCHIO BALUARDO ARAGONESE, CASTELLO D’ISCHIA.
C’era.
Grazie ai miei amici ed ai miei nemici, se mai ne ho avuti degli uni e/o degli altri, il CASTELLO ARAGONESE D’ISCHIA non c’è più.

Il Dispari 20240318 – Redazione culturale DILA APS

CAPITOLO QUARTO

Sbambagiate anteprime di timpani.
La musica di Gershwin.

Violenta la Musa il suo clarino.
Va tutto bene.
Bacchetta d’Africa infernale.

Semplici dita ruotano sui tasti.
Tu nero tu bianco.
Le note e la bacchetta.

Riflessione in versi su un fantastico concerto diretto da Marshall e trasmesso da Rai tre alle due del 10/06/05.

“…
Ti benedica la Musa
mentre
non senza titubanti tenerezze
liberi suoni e silenzi da
orpelli congeniti
che
trascinano con affanno.
…”

Passato il tempo delle more, sopraggiunge il periodo dei fichi. Le angurie attendono impazienti.
Ora che ho quasi esaurito il rigido menabò, verde speranza come il colore di una papaia, impostomi per la millesima volta da una irriducibile vecchia vacca razionalità, ora, salve, non sono innocente.
“Ho pensato tutta la notte…” è una frase comune così o come “Ricomincio tutto da capo…”, “Coraggio.”, “Ce la puoi fare…”, “Non chiedermelo…”, “Il primo vagito.”, “Un sospiro!”, “Presente.”, “Pronto.”, “Sì.”, “No.”, “Perché?”, ma si meritano spazi consistenti in una iperbolica classifica anche “Cosa ne pensi?”, “Possiamo provare…”, “Ho preso qualcosa per cena.”, “Ci si può divertire.”, “Cos’è?”, “Come?”, “O.K.”, “D’accordo.”, “Chi è?”.
Lesto, mi preparo al meritato sollazzo di chi ha completato dopo un’ora il budget di un mese, l’oscar mi attende.
Sento una voglia gagliarda di oscurare tutto il mio lavoro riducendolo in un affresco in bianco e nero.
Neppure mi è chiaro cosa significa questa affermazione.
Forse che ogni inciso, parentesi, segno di punteggiatura, avverbio aggettivo preposizione e tutte le balzane forme di interpunzione, contengono virus malefici capaci di aggiungere sfumature ai decorati basamenti dei miei obelischi mentali, adducendoli sotto leviganti cascate normalizzanti?
Non voglio.

Il Dispari 20240318 – Redazione culturale DILA APS

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

Mi benedica la Musa
mentre
non senza titubanti tenerezze
libero suoni e silenzi da
orpelli congeniti
che
trascinano con affanno.
“Così o come” (la mia nuova libidine esistenziale), non è
ancora terminato, né so se e quando avrò ancora palpiti che
m’indurranno ad aggiungere respiri e forme al suo cuore ormai pulsante, direbbe un cardiologo.
Comunque, se vuoi: Lui disse alla Musa

“……
non sia condanna, per le mie idee ansie
che nutro con poche scoregge di vita liberate dai miasmi
generali
cardinali
multinazionali

… ,
la tolleranza.
Che io sia follia,
non folle.”

Per dire che la voglia di consenso non dovrebbe convincere l’autore a togliere la scorreggia dal verso, “Così o come” nessun lettore, quantunque privilegiato, dovrebbe rompergli i coglioni con le “sue” idee, ansie, e tutto il resto.
Fin che posso, non allargo le gambe nel ruolo dell’autore, e non le accavallo in quello del lettore.
Ciao.

Fine quinta puntata.
Le precedenti quattro puntate sono state pubblicate il 29 gennaio, il 5 febbraio, il 26 febbraio e l’11 marzo.

Segue la prossima settimana.

Il Dispari 20240318 – Redazione culturale DILA APS

Il Dispari 20240318 – Redazione culturale DILA APS

 

Il Dispari 20240311

Il Dispari 20240311

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo”

https://www.lulu.com/it/shop/bruno-mancini/per-aurora-volume-terzo/paperback/product-29y6wr.html?page=1&pageSize=4

Il Dispari 20240311

Quarta puntata

 Parte Prima

CAPITOLO PRIMO

Altri personaggi candidati: – Andrea – Ciccio – Aniello…

Volendo comprendere le banalità insite nelle semplificazioni adoperate per ridurre in un breve promemoria una serie di azioni, tra loro simili ma differenti, è sufficiente permeare, spianare, e quindi valutare, quanto viene affermato in uno dei più celebri messaggi popolari.

Affidato a noi ragazzi dai saggi vissuti negli anni delle Pinete d’Ischia, esso proclamava: “Occhio che non vede, cuore che non soffre”.

Andrea era cieco e soffriva, sia a causa delle oggettive privazioni di cui la sua quotidianità risultava costellata, sia per i ricordi di quante meravigliose immagini avevano fermato i suoi sguardi nei tempi passati.

Egli pativa anche, o forse principalmente, in quanto il buio visivo nel quale era immerso da anni aveva dapprima circoscritta, ed infine definitivamente imprigionata, la sua indole di spontanea prorompente ricerca conoscitiva.

In un evidente contrappunto ai limiti fisici caratterizzati dalla deficiente situazione sensoriale, Andrea aveva affinata una capacità mnemonica quasi oltraggiosa a confronto di quella dei vedenti.

Ogni settimana, prevalentemente di venerdì, lo scrutavo mentre era impegnato a scandire una sequenza impressionante di colonne totocalcio alla compagnia di un esiguo gruppo d’amici.

Eseguiva, mentalmente, complicate elaborazioni.

Dettava serie enormi di dati che altrimenti si potevano attenere solo rivolgendosi a ricevitorie speciali dotate d’apposite attrezzature computerizzate.

Robotizzato, era un aggettivo che specificava bene le sue attitudini.

Non solo per lui era elementare lo sviluppo del “sistema” di sette doppie (che si articola in cento ventotto colonne di tredici segni ciascuna), ma con stupefacente naturalezza, bevendo un cappuccino e fumando un pacchetto d’Edelweiss, riusciva a dettare la serie completa di colonne di tutti gli altri sistemi, integrali o ridotti, per i quali gli si chiedeva collaborazione: quattro triple, tre triple e tre doppie, cinque triple e tre doppie ecc.

Non dico che ritenevo impossibile memorizzarne le formule, ma che mi colpiva la sua abilità di specificarne le risultanti colonne senza potersi servire d’alcun aiuto.

Insomma sono tuttora convinto che è certamente un risultato di grande concentrazione riuscire, senza neppure un foglio di carta ed una penna, ad elaborare quegli insiemi composti da tante numerose variabili.

Il Dispari 20240311

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Altri personaggi candidati: Renato…

-«Bongiur, chi lé Renatò pittooor artistà? Pittor? Fet capellì mio peìit?»
-«Bell Madama, eccomi, tutto per tuà.
Frances, acconcia il ragas, io penso alla Francès.»
-«Al top, al top, ahhh… an top… uhhh…»
-«Franco, quante volte devo dirti di non fare uscire sciù sciù dopo cena?
Riponilo in gabbia, vedi, la Signora ha paura.
Ti ho detto mille volte di non lasciarlo libero se ci sono persone estranee!
Non lo conoscono, poverine, e credono sia un topo!
Sciù sciù!
Cherì, non ti preoccup, ora lo risistemiam nel suo allogg natural.
L’abbiamo cresciuto noi, da piccolo.
Sapess com lu er tre malconc!
Dai Franco, sbrigati.
Al piccolo i capelli li facciam con taglio modern a spazzola, oppure con baset lunghe alla marsiglies?
Franco, Franco… … e acchiappalo, sotto la sedia… come sempre il birichino.
Scend, petit cherì madame, non morde, vuole solo digerire il pollo e le patatine fritte che ha mangiat nella dispensa, è bravo, sciù sciù, non mord, scendi, Matam e scendi Signora, appoggiati, bella Signora, Madame la franceson.
Così ohhh così con il braccio intorno alla mia spal, scendi piano piano, piano, piano, lentament, fammi sentire le braccia sul collo, cazzo che zizzona, FERMATI, sciù sciù è sotto il lavello, Franco sbrigati, spicciati…  aspetta, non correre, piano, afferralo senza fretta, Madame è bona… azzo se è bona…»
-«Ahh… Ahh… eccolo…»
-«Niente paur ora ti prendo in bracc e ti porto al sicur nel retrobotté.
Francooooo… … e tieni a bada il ragazzino!»

Il Dispari 20240311

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CAPITOLO SECONDO

Il risveglio è a volte imbarazzante per i tanti enigmi nei quali era rimasto imbrigliato durante la sonnolenza.

Mi rendo conto di quanto sia assurda l’ambizione di regalarmi, volontariamente, un’atroce ossessione, eppure, nessun oblio mi tenta.

Il comodo abbandono di una risalita in ascensore si annulla di fronte alla vorticosa bellezza della scala acchiocciolata.

Voglio il mio.
Aspro e bollente.
Che sia il mio.

Gli architetti della vita non hanno predisposto ermetismi sufficienti ad impedire le fughe della mia fantasia.

Resterà negra e ribelle, piuttosto che conformarsi ai candori delle false fattrici di misteri.

Ai comodi abbandoni
di sbalzi
in ascensore,
vorticose bellezze
di scale acchiocciolate.
Voglio la mia.

Dalle false fattrici di misteri
insufficienti compromessi,
o Principi o Caini.

Voglio la mia
aspra e bollente.

Per assurde ambizioni
invento
atroci ossessioni:
orridi
oscuri
oblii.

Voglio la mia
aspra e bollente
negra e ribelle.
 
I veri architetti della vita
dileggiano
con antichi ermetismi,
o corde o grotte o celle.

Voglio la mia
aspra e bollente
negra e ribelle,
che sia la mia.

Imbrigliati da enigmi
di torpori,
risvegli imbarazzanti
osteggiano.

Voglio la mia fantasia
aspra e bollente
negra e ribelle,
che sia la mia,
in fuga solitaria.

Io sono acqua, ovverosia, il risultato di un fatto: ossigeno e idrogeno s’incontrano in una scarica elettrica.

L’uomo, la donna, idem.

A volte mi chiedo come mi comporterei, e quali scelte effettuerei, nella improbabile eventualità che un magnifico marchingegno scientifico biologico elettronico spaziale sfavillante (sfavillante è sì fuorviante ma attinente), sconvolgente e dissacrante, insomma iper moderno globalizzato (l’attrezzo di una estrema concezione della vita, il pomo del nuovo peccato originale, il sogno di ogni folle ricercatore artista autista di viaggi impossibili madre di flotte frignanti magnifici regnanti e scomodi accattoni utili servi e pavidi legionari…), rendesse possibile la retro metempsicosi.

Poter scegliere, prima di dissociare i contorti meccanismi molecolari che mi governano, in quale “X” già vissuto volermi riprodurre per proseguirne le abitudini e sopportarne i difetti.

Un cane, una pietra, un uomo?

Ai comodi abbandoni
di sbalzanti ascensori,
vorticose bellezze
di scale acchiocciolate.

Voglio la mia.

Per assurde ambizioni
m’invento atroci ossessioni:
orridi
oscuri oblii.

Voglio la mia
aspra e bollente.

Dalle false fattrici di misteri
insufficienti compromessi,
o principi o caini.

Voglio la mia
aspra e bollente
negra e ribelle.

I veri architetti della vita
dileggiano
con i loro antichi ermetismi,
o corde o grotte o celle.

Voglio la mia
aspra e bollente
negra e ribelle,
che sia la mia.

Imbrigliati da enigmi
di torpori,
risvegli imbarazzanti
osteggiano.

Voglio la mia fantasia
aspra e bollente
negra e ribelle,
che sia la mia,
in fuga solitaria.

Ma non scherziamo!

è già tanto se l’ippocampo non risulta inserito nella lista dei protetti, a guisa (che sciccheria “a guisa”) dei pentiti pluri extra super assassini.

I pipistrelli ci sono riusciti.

Forse con qualche raccomandazione, oppure, com’è documentato nell’archivio storico della mia immaginazione, con larvate minacce di penetrazioni notturne nelle quiete stanze dei rampanti animalisti ambientalisti autonomisti assolutisti accreditati difensori di tutto quanto esiste, fu, esistette, fu stato, è.

Un pipistrello in cambio di cento zanzare sarebbe un affare?

Nelle cities (plurale di city: città!) dagli immensi benesseri malesseri ossessi o sessi o calci nelle palle, sollecitati sbirri dondolano chiappe bucate per soldi e per potere.

Si sbaglia chi crede che ogni violenza è vincente, «così o come» un dito nel culo, ma non è per nulla certa la sacrale conquista da parte di ogni desolata pietà.

Ma non scherziamo!

Giulio era un uomo d’onore o di onore?

Ne farò una poesia.

Le guardie notturne
attaccano all’alba
la chiave alla bacheca,
i nostri giornali
il prode ed il bislacco.

Ma non scherziamo!

Attacco all’alba
Gl’ippocampi sguazzano
in ogni polla
al pari di pesci,
i nostri Giulio Generale
tra i baci dei prudenti.

Ma non scherziamo!

Attacco all’alba
con sciami di zanzare.
Ossessi dondolanti
per soldi e fra poteri
bucano chiappe cittadine,
i nostri uccelli neri
ronfanti animalisti.

Ma non scherziamo!

Attacco all’alba
con sciami di zanzare
per la sacrale conquista.
A Roma si scopre il
bianco alla finestra
sbaglia chi crede,
a Cuba
il rosso nella cella.

Ma non scherziamo!

Attacco all’alba
con sciami di zanzare
per la sacrale conquista
della vostra libertà.
 
Fine quarta puntata.

Le precedenti tre puntate sono state pubblicate il 29 gennaio, il 5 febbraio e il 26 febbraio.

Segue la prossima settimana.

Il Dispari 20240311

Per Aurora

Il Dispari 20240311

Il Dispari 20240311

Il Dispari 20240311

l Dispari 20240226 – Redazione culturale DILA APS

Il Dispari 20240226 – Redazione culturale DILA APS

Il Dispari 20240226

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini inserito in

“Per Aurora volume terzo”

https://www.lulu.com/it/shop/bruno-mancini/per-aurora-volume-terzo/paperback/product-29y6wr.html?page=1&pageSize=4

Terza puntata

Parte Prima

CAPITOLO PRIMO

Costui, in fondo, era un uomo gioioso e collerico, sensuale rude e tenero, bislacco e profondo, futile e sottile. Un brivido per donne di sani tradizionali principi, per maschi timorosi di confronti e per tutte le belle statuine dei presepi viventi allestiti nelle piazze e nelle feste di paese.

Nessuna persona provvista di buon senso avrebbe voluto provocare un confronto con la sua dissacrante, violenta ed anarchica mancanza d’auto ironia:

-«Coloro che bussano alla porta, i bussanti, i bussatori – e così anche il liquido di una bottiglia dal tappo di sughero biondo come la schiuma della mia birra commerciale o come i baffi scoloriti dalle tremila sigarette che fumo in meno di cinquanta giorni – non sempre sono i migliori nel catalogo degli attesi.

Io credo che l’America avrebbe dichiarato guerra al Giappone per l’affronto delle Hawaii, ma non si sarebbe impegnata nello scacchiere europeo se l’Italia non fosse stata in lizza.

Il Dispari 20240226 – Redazione culturale DILA APS

Senza la partecipazione del nostro Duce al conflitto, loro, le stelle e strisce, avrebbero comodamente sistemato l’orticello acquatico del vicino Pacifico non creandosi altre preoccupazioni.

Le fabbriche di cannoni ed ogive per proiettili dalle svariate caratteristiche, avrebbero continuato a produrre utili e benessere economico con minime perdite di vite umane, sia in regime di guerra, sia nel successivo tempo di ricostruzione.

Ma “la popolo ed il popolazione” nel continente a stelle e strisce era formato in maggioranza da itali americani.

“Non salviamo i nostri cugini zie e nipoti amici fratelli padri nonni madri cumparielli padrini sorelle consanguinei conoscenti? Il cattivo li opprime.

Noi siamo la libertà.

Loro, gli Italioti, custodi delle nostre radici, delle nostre origini, delle nostre fedi, sono persone a noi care. I nostri consanguinei sono ingenui, semplici, affettuosi, docili, simpatici, gentili, ospitali.

Sono poveri scemi imbrogliati dal fottuto figlio di puttana. Abbiamo lottato contro le Montagne Rocciose, gli Apache, il Fiume Colorado, Geronimo, ed il Deserto del Nevada, che facciamo, gli spettatori nella corsa alla conquista dell’Italia, l’origine delle nostre origini?

Non sia mai detto!

Andiamo.

WE GO.”

E vennero.

Non piangere, bambino, tua madre fu violentata da truppe marocchine, sì, sotto il comando di…, sì, sì, sì… ma non erano i cugini, neppure le settantamila, settecentomila, sette milioni, sette miliardi di tonnellate di bombe a tonnellate sui vicoli palazzi spiazzi giardini pubblici scuole chiese alberghi prostiboli… et de hoc satis.»

Questo racconto tenta di forzarmi la mano ed impormi continue traiettorie, contigue confinanti collaterali collegate complici comuni compiacenti, che non rientrano nella serafica visione morfologica che inizialmente avevo architettato.

Il breve ritratto di un Costui spolverato dal manuale del tipico esistenzialista pacifista comunisteggiante anarcoide, non prevedeva la messa in scena di un superbioso trattato storico sociale.

Costui quindi tornerà accanto alle altre figure nobili della ormai distrutta civiltà che abbiamo vissuto nella ex Isola Verde. Tuttavia, per non convalidare la tesi secondo la quale non avrei rispetto per nessuna giusta curiosità, e tanto meno per gli ormai codificati standard letterari, completerò in poche righe la tesi elaborata da Costui.

Il Cattivissimo perse la guerra, poiché aveva commesso l’errore madornale ed irreparabile di pretendere l’alleanza del Semi Cattivo. Ciò in quanto tutte le operazioni militari del suo Sub alleato si rivelarono tanto velleitarie quanto inutili e dispersive.

La Grecia, l’Albania, la Libia, l’Eritrea, l’Egitto, l’Etiopia, Malta, Cirenaica Trento e Trieste pur non essendo di alcuna valenza nella economia bellica, crearono ostacoli di grossa portata alle armate del Super Io chiamate in soccorso dei bravi soldatini disarmati affamati e male equipaggiati che il Mini Dux aveva gettato allo sbaraglio al grido di “Avanti savoiardi”.

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Il Dispari 20240226

Un giorno sì e l’altro pure, “Egli, il mini” mandava emissari a chiedere aiuti “Il pan ci manca”, e ad implorare “Benzin benzin”. Per di più generali afflitti dalle vicende di Taranto, Capo Matapam, Tobruc, e poi Grecia, e poi e poi… aggredivano, si fa per dire, il Maine Super con assillante continuità.

Da queste considerazioni Costui traeva la conclusione che il Baffo Tedesco, senza l’intervento raffazzonato e sconclusionato dell’Amico Guaifondaio, potendo utilizzare in maniera non dispersiva forze superiori sui fronti strategicamente determinanti, sarebbe riuscito a sopraffare le difese nemiche.

Egli rafforzava questa sua tesi elaborando il concetto che le Stelle e Strisce erano entrate in guerra contro il Super Deux solo in ragione della presenza dei Nostri concittadini (piccolo interessuccio economico populistico).

Non tutti siamo d’accordo.

Non tutti abbiamo natura di “affermanti”.

Non può non esserci un limite.

è vero che il Super comandava il plotone di esecuzione, ma erano altri a premere i grilletti.

Allora io ancora non sapevo che nello stesso giorno del mio secondo compleanno il Super Iper Max Baffo Maine aveva ammazzato pure se stesso!

Suicida.

Altri personaggi candidati: – Andrea – Ciccio – Aniello…

Volendo comprendere le banalità insite nelle semplificazioni adoperate per ridurre in un breve promemoria una serie di azioni, tra loro simili ma differenti, è sufficiente permeare, spianare, e quindi valutare, quanto viene affermato in uno dei più celebri messaggi popolari. Affidato a noi ragazzi dai saggi vissuti negli anni delle Pinete d’Ischia, esso proclamava: “Occhio che non vede, cuore che non soffre”.

Andrea era cieco e soffriva, sia a causa delle oggettive privazioni di cui la sua quotidianità risultava costellata, sia per i ricordi di quante meravigliose immagini avevano fermato i suoi sguardi nei tempi passati. Egli pativa anche, o forse principalmente, in quanto il buio visivo nel quale era immerso da anni aveva dapprima circoscritta, ed infine definitivamente imprigionata, la sua indole di spontanea prorompente ricerca conoscitiva.

In un evidente contrappunto ai limiti fisici caratterizzati dalla deficiente situazione sensoriale, Andrea aveva affinata una capacità mnemonica quasi oltraggiosa a confronto di quella dei vedenti. Ogni settimana, prevalentemente di venerdì, lo scrutavo mentre era impegnato a scandire una sequenza impressionante di colonne totocalcio alla compagnia di un esiguo gruppo d’amici. Eseguiva, mentalmente, complicate elaborazioni. Dettava serie enormi di dati che altrimenti si potevano attenere solo rivolgendosi a ricevitorie speciali dotate d’apposite attrezzature computerizzate. Robotizzato, era un aggettivo che specificava bene le sue attitudini. Non solo per lui era elementare lo sviluppo del “sistema” di sette doppie (che si articola in cento ventotto colonne di tredici segni ciascuna), ma con stupefacente naturalezza, bevendo un cappuccino e fumando un pacchetto d’Edelweiss, riusciva a dettare la serie completa di colonne di tutti gli altri sistemi, integrali o ridotti, per i quali gli si chiedeva collaborazione: quattro triple, tre triple e tre doppie, cinque triple e tre doppie ecc.

Non dico che ritenevo impossibile memorizzarne le formule, ma che mi colpiva la sua abilità di specificarne le risultanti colonne senza potersi servire d’alcun aiuto. Insomma sono tuttora convinto che è certamente un risultato di grande concentrazione riuscire, senza neppure un foglio di carta ed una penna, ad elaborare quegli insiemi composti da tante numerose variabili.

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DILA

NUSIV

 

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