“Anima, anima cara” e “La canzonetta di un putano” di Liga Sarah Lapinska Legge Chiara Pavoni

Grazie!

“Anima, anima cara” e “La canzonetta di un putano” di Liga Sarah Lapinska Legge Chiara Pavoni

 

 

“Anima, anima cara” e “La canzonetta di un putano”


Anima, anima cara

Oh, anima cara, non alzarti
nelle tue ali di un angelo rosso
non alzarti, non stancarti –
con la terra verde,
con i semi di palude,
con una nuvola
in una croce oscura della chiesa
calmati, oh calmati!
Che tristezza rosea –
come se nella sua barchetta
di canne un pastore sacrosanto
passasse accanto con un palo,
proprio il dio del sole e dell’oro.
Che onde tremanti
dove il ghiaccio si è sciolto
o forse un gelato sciolse.
Perché qualcuno ci sarà sempre
che non si aspetterà:
primavera,
amore,
apprezzamento,
salario.
Che tristezza rosea!
L’incenso pesante come una carezza,
le preoccupazioni
se ne sono andate,
le preoccupazioni se ne sono andate, con calma.
L’incenso pesante come una carezza è venuto
con le scarpette persiane
con le perline vive decorate.
Non voglio io credere nella morte,
al fallimento e all’abbandono
mentre l’orizzonte nostro urla.
Che tristezza rosea.
Ma quell’usignolo grigio
che cantava gli inni
del nostro amore
è già morto.
Uno sciacallo solitario
cerca una tomba comune,
come un archeologo
o come un antico chirurgo
curiosissimo.
Devi credere anche tu,
anima cara mia,
nelle sabbie mobili
che spolverano presto.
Ne varrò la pena,
negli arcobaleni
e nei nuovi
più brutti soli,
inoltre usignoli.
Io rinascerò
nelle fianciulline
con gli anellini di rame.
Non piangere, ridere
insieme agli usignoli di quest’anno, attuali,
grigi, sofici, infantili
come lo studio
della rugiada e dei piccoli cespugli.
Che tristezza rosea,
che orizzonti rosa!
Ahimè, anima, anima cara!

La cazonetta di un’ putano

Ti seguo dall’altra parte
mentre sei tu non più
indifeso, e sottovalutato
verso una camera polverosa
in un alberghetto di Barcellona
in cui le antiche lampade arabe
regalano la luce benedetta,
ammorbidendo le rughe
nel viso pesante del tuo padrone,
e tintinnando la sua voce metallica.
Brillando l’azul oscuro
dell’intelaiatura saturniana
dell’aureola tua.
Mah, quanto è bello
di sentirti necessario,
non stanco morto
e ancora ragazzino!
Grazie a lui,
il signore tuo su questa terra,
tu cominci a capire
quell’altro amore
chi comanda non solo ubbidisce,
che brucia, non solo lenisce,
che non genera, ma anche uccide.
Le rizome, piene di rugiada
nel giardino recinto moresco
sulla soglia ci aspettano, gigantesche.
Il paradiso sulla terra
come l’esistenza
di un giorno a buon mercato,
trasformato alla vocazione,
inoltre nel desiderio di riempirlo.
Mi perdonerai
il mio carattere clemente;
ti perdonerò
i tuoi ingenui bracciali in bronzo
e la tua fede incrollabile
che sono buone tutte le creature
e che tutti i fiori sono
le stelline di Allah,
invece tutti i funghi
sono mangiabili.
Tu suonerài il liuto
ma lui ballerà
come nell’infanzia,
con i piedi leggeri.
Solo una canzonetta
per noi, vagabondi,
decadenti, emigranti,
per noi, moriscos
zingari, vichinghi.
Avremmo una casa eterna
o, meglio, una casa diurna.
Solo nella musica bastano le corde,
solo nell’arcobaleno – i colori,
come
in un’antica scatola di acquerelli,
non essendo in grado
confessare a se stesso
che distingui pure tu
dall’infanzia tua,
andando avanti
sempre più spensierato
in un domani apocalittico
senza la brama di conquista, senza i rumori
di un banchetto sconosciuto,
senza la fertilità del frumento,
nessuna più fatiscente capannetta di tronchi.
Perciò più superficiale
umiliato diventerà.
Perché quello umiliato
come l’ultimo imperatore governerà
in qualche regno dove è stata
la pena di morte annulata,
tutti gli ius primae noctus,
come anche
il bruciamento dei ponti
e la libertà eccessiva.
Dove ogni morte lenta,
carcere o poca fede diventa
la luce del mattino
e nell’impeto quotidiano
nella vita istante.

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