La sesta firma CAPITOLO TERZO – Per Aurora – volume terzo

Grazie!

Per Aurora – volume terzo – La sesta firma CAPITOLO TERZO

La sesta firma CAPITOLO TERZO

CAPITOLO TERZO

Troncai di botto elucubrazioni e sotto insiemi di pensieri, ansiti interiori per timorosi accumuli d’indecenti indecisioni e contrapposte mature certezze mai esaminate con compiutezza, virtuose virtù precipitate in una quotidianità brutalmente anonima e… uscii.
Uscii.
Non mi mossi in cerca di avventure.
Non avevo deciso di costruire la notte più bella della mia esistenza. Ai miei passi mancava l’intenzione di reiterare assalti a Ciccioline con poche pretese ed illimitate dedizioni. Né tanto meno, la cadenza monotona dell’andatura mi spingeva verso l’alcova di qualche indimenticabile gheiscia trasferita nella mia isola dalle fantasticherie, finanche eccessive e perverse ma giammai sguaiate, disseminate tra le balere notturne nell’arrendevole Budapest degli anni ottanta. Le notti senza stelle delle mie peregrinazioni epicuree!
Neppure volevo mortificare i teneri boccioli, o forse solo appendici irrilevanti, che piccoli corpi anonimi offrivano entro bettole, di facili identificazioni per le insegne con gli ideogrammi del lontano oriente, affogate nei fumi e nella coca.
Ne avrei avuto buon motivo, considerando gli onori che il giorno prima mi aveva generosamente elargito la mia cara amica Aurora, la donna guascona, la “Signora”.
Oltre tutto, percepivo ancora, incalzante, scandito in un ticchettio mentale, ogni singolo minuto che aveva caratterizzato la fase finale di quell’avvincente incredibile avventura, iniziata, quasi per caso, dalla improvvisa ed inaspettata telefonata con la quale Aurora mi aveva comunicato di essere stato “convocato”.
Quei momenti mi apparivano ancora scandire le ansie, per tutti i densi fardelli di domande senza risposte e di desideri irrealizzabili, che mi avevano oppresso durante il conto alla rovescia iniziato da meno quindici alla presenza d’Ignazio.

Cosa sono quindici minuti per risolvere un passaggio dalla vita alla morte?
Sono pochi?
Sono molti?
Sono sufficienti?
A chi affidarsi nel quarto d’ora che un cieco destino ci conceda prima di traghettare la nostra mente in un sito ignoto?
Ai maghi?
Ai demiurghi?
Agli amici?
Nell’incalzante ossessione delle lancette, per novecento secondi, novecento battiti senza pause.
Nella successione, tic tac, in altre occasioni ritenuta finanche monotona, ridicola.
Quali risorse attivare per trasformare l’origine del battito assassino degli ultimi minuti, in ordigno auto distruggente? Soldi?
Potere?
Impegno?
Uscii per cercare una spiegazione alla improvvisa, inusuale, sensazione di solitudine.
Piano piano, passo dopo passi, lemme lemme, lemme lemme, passo dopo passi, piano piano, mi ritrovai appoggiato al banco rivestito con formica azzurra del bar in Via Colonna, davanti al quale, poche ore prima, avevo imparato dalla bella Gilda che non tutte le birre si possono bere in un sorso solo.
Lei non c’era.
Non era tardi.
Le dieci di sera ad Ischia potrebbero essere paragonate alle ore antecedenti l’alba per Milano.
Non la vidi o non c’era?
Alla cassa una ragazzona squintalata.
Troppi gelati?
Poco sport?
Spaghetti a gogo?
Disfunzione Epomeidea?
Su uno sgabello giallo (tre piedi di ferro verniciato a fuoco, un cerchio di plastica rossa, lo stemma di una marca di gelati multinazionali super popolari come la mia birra), un bimbo biondo con boccoli sciolti fino alle spalle, dondolava le gambe, guardando la TV e succhiando un ghiacciolo.
Lo conoscevo.
L’uomo al tavolo d’angolo, con la sigaretta mai spenta bruciacchiata nei baffi e tra le dita, era noto a tutti.
Tre quarti degli indigeni, ed un terzo dei villeggianti, avevano almeno sentito parlare del Principe Innocente.
Lei non c’era o non la vedevo.
Accostandomi con finta disattenzione alla porta semichiusa che introduceva al locale “Privato” (un mini ambiente adattato ad ufficio, spogliatoio, deposito, officina), vi detti una sbirciata.
Lei non c’era.
Al banco bar, Gianni serviva da bere e folleggiava da solo…
E lei, Gilda?
Non lo sapevo, forse non lo sapevo, credo che forse non sapevo di essere lì per lei.
Ero lì per lei e non lo sapevo, penso che io non sapessi di essere lì per lei, credo ecc.
Gilda.
Tornai verso casa con una nuova euforia, poco consona sia al mancato incontro con l’esuberante vitalità della rossa Gilda, sia alla robusta delusione di non aver neppure tentato una soluzione per il quesito che mi aveva turbato all’uscita di Geltrude dalla stanza.
Una serata nottata no, negativa, eppure non deprimente.
Era una specie d’infantile beatitudine, un compiacimento.
Una serata – nottata quasi goliardica, da filone scolastico.
Mai successo da decenni.
Vi aggiungeva un pizzico di fisica piacevolezza anche il forte vento di ponente, che s’insinuava tra le barche cariche di nasse pronte a prendere il mare.
Non era la solita brezza che rinfresca, un attimo prima dell’alba, le notti delle afose estati ischitane, no, non era una brezza passeggera.
Come una giovanile compagna d’avventure, chiacchierona, l’aria, fluendo, mi soffiava la sua vitalità nel naso tra gli occhi nella bocca e sulla pelle.
La salsedine portata dal vento, quasi riempiva le rughe lasciate scoperte sul mio viso dal taglio della barba – barbona – barbaccia che fino a pochi giorni prima infoltiva grigiastra.
Il profumo delle praterie di posidonie, nastriformi ripari per gli scorfani e le mormore durante gl’inseguimenti subacquei che avevo concluso quasi sempre senza prede nell’ultima estate trascorsa ad Ischia, ad ogni più forte refolo dell’incipiente buriana – Don Chisciotte contro i mulini -, si accaniva contro i malefici aromi di sigari e sigarette inzuppati nei peli e nelle cartilagini del mio naso nasone nasaccio.
Soffiava forte, non era una brezza, il vento di ponente, a raffiche dolorose per gli occhi che trattenevo aperti, ed intanto umettava, con una soffusa vaporosità, le mie labbra socchiuse, quasi in un bacio.
Nell’abbraccio malizioso di una prima volta.
Avevo preferito ritirarmi passando sulle passerelle di legno a ridosso degli scogli scuriti dalla luna al tramonto oltre la collina, piuttosto che opprimere maggiormente, con un percorso più usuale, la delusione di non aver tolto neppure un grammo al dilemma del mio sentirmi solo.
Tutti i più anziani pescatori conservavano, in precisi ricordi, le stravaganze giovanili delle mie sortite notturne.
Iniziando dai modi con i quali, di solito, avevo cercato fisicamente i contatti con la natura, fino alle domande che ponevo.
Anch’esse, dal loro punto di vista, erano sempre state considerate ben strane e strampalate.
-«È bravo, ma è un po’ matto» dicevano di me parlando tra loro.
-«L’amante l’ha lasciato per un marocchino indiano.
Io l’ho visto sul pontile, aveva i capelli come quelli dei film, lisci azzeccati e neri, non scuri, neri.
Lui era stato fuori per lavoro, lo sai com’è, viaggia, scrive, legge, cambia albergo.»
-«Non ha mai avuto amanti, che dici.»
-«Che ne sai tu, tutte balle…»
-«Mi chiamo Totonno ‘O Saragone perché so tutto di te di lui come dei saraghi e delle spigole.»
-«Non ci credo, è sempre stato sballato.»
-«Da piccolo me lo ricordo in bicicletta fare gare con la carrozza della buonanima di Bastiano.
Che ti credi che non lo conosco?
Non ha mai avuto un’amante.
Forse era una segretaria.»
-«Tutti lo sappiamo.
Ne aveva tante.»
-«È stato sempre così.
Bravo.
Bravo.
Brav’uomo.
Buongiorno, buonasera, buonanotte, buono tutto, ma non si è mai sporcato le mani a spingere una barca.
Lui dice: “Buongiorno, vuoi una sigaretta?
A chi appartieni? Quanti figli hai?”
Non capisce che le barche non funzionano con le parole.
Ci vuole sudore e fatica.
E mo’ sta peggio, chi sa perché.»
-«Cirù, Ciruzzo O Schifo, tu e Totonno non avete capito nu’ cazzo.
Non siete informati.
Non devo chiamarmi più Emilio Tressette E Maniglia se non è vero che sta così per quello che iss ha scoperto ora che è tornato dall’ultimo viaggio.
L’avevano chiamato apposta, loro dicono “convocato”.
La sapete la nipote di Nicola Sindacato?
Parlava con l’amante di Nicola Sindacato, Rosita Cascettella, guardava le persiane chiuse del Dotto’ e diceva piano piano: “È figlio della colpa.
Sicuro.
Ho sentito che ascoltava… parlavano zitto zitto… con uno mai visto che però gli somigliava, e che gli diceva: tuo padre non è lui, tua madre è lei, noi siamo fratelli.
Gli ha detto proprio così, io stavo dietro la porta, noi siamo fratelli.
Quando due sono fratelli si conoscono, è vero Rosita?
Se non si conoscono è perché non si sanno.
O no?
E sono figli di puttana”.
La nipote di Nicola così ha detto, proprio così: figli di puttana.»
-«Forza, basta chiacchiere, vuttamm ‘e mane.
A una voce.
Ohhh vai.
Ohhh vai.
Ohhh issa.
Ohhh issa.
Metti uno scanno.
Vuttamme vuttamme.
Ohhh vai.»

I notturni lavoratori del fondo marino non si scandalizzarono più di tanto, quando notarono che mi ero steso a riva con scarpe e cravatta, mezzo dentro e mezzo fuori della risacca.
Le pratiche faticose della loro quotidianità non lasciavano balenare il flusso di emozioni che mi spingevano in quell’atteggiamento irrazionale e palesemente sconveniente.
Docile, m’immergevo tra i bisbigli della sabbia rotolante sulla sabbia e della spuma spruzzata sulla spuma, con la ragione offuscata dall’incontrollabile seducente rapimento di scrivere la prima poesia per Gilda.
Volevo scrivere la mia prima poesia d’amore per Gilda. Mentre la risacca inzuppava gli indumenti che indossavo dalla mattina, e sussurrava tra i pensieri di una passione tanto antica quanto trascurata, procurandomi la sensazione di essere avvinghiato da un doppio gelido intruso, di colpo, l’inquietante dubbio di aver osato troppo mi fece barcollare e scivolare nel mare, fino alla gola.
Volevo scrivere la mia prima poesia d’amore per Gilda, quando ormai avevo già osato troppo!
Infatti, uscendo dal bar, la lunga malinconia cui avevo costretto, da sempre, la mia passione per la rossa inquilina di tutti i miei sogni, si era procurato un varco utile a lasciarle un biglietto.
Avevo lasciato per lei un biglietto alla cassa: “Quando potrò fare una passeggiata, cenare, andare alle giostre, al mare, con te e il tuo bimbo?
Sarà bello.
Promesso.
Telefonami, 081081081.”

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La sesta firma CAPITOLO TERZO

La sesta firma CAPITOLO TERZO

TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Dedica – Brevi commenti amichevoli

Only you

Only you

Così o come

Parte Prima

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

Così o come

Parte seconda

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

Parte Terza

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO FINALE

Only you 2

Only you 2

La sesta firma

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

CAPITOLO FINALE

Poesia sporca

Poesia sporca

Per Aurora vol-3 di Bruno Mancini – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

La sesta firma CAPITOLO TERZO

ACQUISTA Per Aurora – volume terzo – Vetrina LULU

seconda edizione

ID 29y6wr

ISBN 9781471074813

La sesta firma CAPITOLO TERZO

La sesta firma CAPITOLO TERZO

Bruno Mancini
ISBN 978-1-4710-7481-3
Versione 2 | ID 29y6wr
Creato: 26 ago 2022
Modificato: 27 ago 2022
Libro, 135 Pagine
Libro stampato: A5 (148 x 210 mm), Standard Bianco e nero, 60# Bianco, Libro a copertina morbida, Lucido Copertina
Prezzo di vendita: EUR 14.00

Titolo PER AURORA volume terzo
Sottotitolo Alla ricerca di belle storie d’amore
Autore Bruno Mancini
ISBN 978-1-4710-7481-3
Marchio editoriale Lulu.com
Edizione arricchita

Tutti i diritti riservati – Licenza di copyright standard
Titolare del copyright Bruno Mancini
Anno del copyright 2022

Per Aurora vol-3

La sesta firma CAPITOLO TERZO

La sesta firma CAPITOLO TERZO

Descrizione
Alla telefonata di Gilda seguì lo sferragliante rumore del chiavistello divenuto rugginoso per essere rimasto a lungo inutilizzato.
Geltrude, entrando con la cautela e la discrezione di chi non deve disturbare:
-«Dotto’ già sveglio?
Come mai?
State bene?»
-«Sì. Tutto a posto.
Tu sei mai stata sola?»
-«Dotto’ per stare soli, bisogna essere soli.
Io non sono mai stata niente, figuriamoci se mi potevo permettere il lusso di essere sola.
Stare sola?
La solitudine!
Voi ve la potete permettere.
Io no.»

Tabella dei contenuti

Per Aurora vol-3

La sesta firma CAPITOLO TERZO

Per Bruno Mancini: brevi commenti amichevoli.

“Percorso di memoria o ricerca di spazi temporali virtuali?”
“Il continuo intersecarsi di livelli di identità con ipotesi e incarnazioni simboliche…”
“…sembrano accarezzare un sogno lontano, una speranza che non sarà mai certezza, un miraggio di felicità che si perde oltre l’orizzonte illusorio di fragili esistenze.”
“…a volte lirismo crepuscolare, intriso di soffusa malinconia, di struggente tristezza.”
“Opera interessante per i contenuti e le tematiche affrontate, nonché per i valori estetici…”
“… seria preparazione, corredata da rimarchevole fantasia.”
“… lavoro meditato, armonioso di buon afflato poetico.”
“… sincero, elegante, sempre aderente al soggettivismo letterario del particolare momento che attraversiamo.”
“Non racconto né romanzo, più che risolverli lascia aperti molti quesiti anche sul piano puramente tecnico linguistico.”
“Una prosa lacerata e sfuggente…”
“Le aperture liriche, più che segnare il passo dell’emozionalità, offrono un ulteriore invito a perdersi nei labirinti della parola scritta…”
“Quasi poesia cruda, percuote e carezza, giovane e antica…”
“Lavoro intenso, vissuto nella profondità della sua composizione, fatta di toni e di immagini…”
“Una voce nuova che chiama ad ascoltarla ed a giudicarla senza inibizioni, come liberamente essa è sviluppata.”
“Troverete un urlo e un soffio di amore, un vuoto, immersi nella forza e nella malinconia di chi comprende che…”

Per Aurora volume terzo

La sesta firma CAPITOLO TERZO

seconda edizione

 

Racconti
Così o come
La sesta firma

Per Aurora volume terzo

QUANDO UNO SQUILLO

Capitolo primo

Per Aurora volume terzo Così o come – AUDIO LIBRO Mencarini

Avevo da poco terminato di scrivere le pagine che avete letto, e mi accingevo ad un primo approccio con il capitolo cinque ancora vuoto quando uno squillo, dallo strano sapore di mandorle o nocciole tostate e zucchero nasprato, fece sobbalzare, non solo il segnale d’avviso del mio videotelefono, non solo i pesciolini rossi nella boccia trasparente casualmente aderente all’appoggio rumoroso e traballante (per loro fu quasi un terre-mare-aria moto secondo la teoria fisica della propagazione delle onde nei liquidi), non solo gli occhiali sul mio naso per il repentino movimento della testa, e la bionda schiuma di birra commerciale versata distrattamente nel bicchiere arrotondato a forma di bocca di vulcano spento, e poi la lunga scia di fogli sparpagliati sovrapposti disordinati in equilibri provvisori ed instabili, e la cenere della sigaretta che stringevo tra i denti per il tiro tiraccio tirone tiretto finale, ma, se volessi dire tutta la verità, dovrei aggiungere particolari perfino sulla rottura sobbalzo sballottamento scatenamento giramento girotondo di… parti basse del mio ventre, mentre, invece, mi voglio limitare ad affermare che quello squillo, la cui provenienza avevo identificato sul minuscolo schermo tecnologico luminoso, creava un potente sbarramento per ogni via di fuga della mia solitudine notturna.

Cercavo di distrarmi, quantunque l’aggeggio continuasse a vibrare, squillare, tormentare i pesciolini rossi, con un forte odore di odissea nello spazio intriso di sfumature all’incenso e vino cotto tanto invadente che, insinuandosi nei lobi auricolari, attraversava incudini e martelli per biforcarsi maleficamente (i miei amici Indiani chiamavano l’uomo bianco lingua biforcuta) tra una papilla gustativa spugnata di birra popolare ed un pigmento olfattivo catramato nicotinizzato bruciacchiato.

Ero stanco, avevo martoriato mortificato martellato per ore lo strumento della mia incapacità, della mia disperazione, del mio sublime aver voluto: il sassofono tenore di marca Orsi ed ancia selezionata in faticosi esperimenti.

Ero suonato, per l’accesso intermittente ininterrotto intenso alla cassetta caverna cassaforte caveau del grosso stipone stipato nell’angolo dietro la porta della cucina: silenzioso bianco latte frigorifero custode delle mie birre popolari.

Ero nel panico per mancanza di appigli appoggi appelli, apriti Sesamo, a chi mi rivolgo, aprimi Sesamo aprimi uno spiraglio speranza abbaglio, per la matita spuntata nell’ultima riga.

E lui suonava!

Mi correggo.

Correggo la frase plebea.

E lui suonava, significa che un lui, quindi un individuo di sesso maschile usava uno strumento adatto a produrre piacevoli onde sonore ecc, in vero io volevo dire che lui, il telefono, esso, continuava ad emettere vibrazioni sgradevoli sgradite sgraziate, grazie.

Lui, esso, squillava, e la curiosità, onde scoprirne il motivo, sculettava per sedurre indurre il pigro indolente rotore del mio sistema ad attivare…

PER AURORA VOLUME TERZO

PRIMA EDIZIONE

Per Aurora

Per Aurora

Volume Terzo>Paperback – 7 May 2009 Amazon

Per Aurora volume terzo – Pagina 161 – Risultati da Google Libri

Per Aurora volume terzo – Così o come – AUDIOLIBRO Mencarini

La sesta firma CAPITOLO TERZO

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